Accadde Anni Fa
di Antonio Sammartino
Tutti decidiamo di mostrare agli altri solo una parte di noi. La narrazione delle esperienze traumatiche non è mai facile, specialmente se il trauma è causato dalle principali figure di attaccamento.
Il mio nome è… che importanza può avere il mio nome, chi sono. Sono una bambina nata per caso in una… non so se definirla Famiglia. Sembrava un giorno come tanti, ma non lo era. Un improvviso tragico evento aveva creato una nuova realtà. Lei… in uno dei suoi rari gesti d’amore, prima di spegnersi donò una carezza, un messaggio, una lettera, una speranza e fu l’inizio di un incerto cammino.
Non fu facile anche se dietro lasciavo il dolore del passato. Ero sola, lo ero sempre stato, solo Lui, di cui nulla conoscevo, solo quel nome scritto su un foglio, poteva ridare vita alla bambina ormai donna.
Camminavo con passo lento, senza sapere in che direzione volesse andare la mia esistenza. Pensieri ruminanti, incerti e confusi affollavano la mente, mentre lacrime dal cielo cadevano intorno. Il sole, in parte coperto da nubi, era al termine del suo percorso, mentre ombre di alberi spogli, rompevano tenui fasci di luce.
Il mio girovagare non seguiva un sentiero tracciato da altri. Non trovavo neppure un piccolo segno, un brandello, un’incisione su un tronco, un segno su una pietra, che potesse indicare una direzione. Nessuno aveva calpestato le foglie cadute, che segnalavano la fine e l’inizio di una vita, solo il rumore di una sorgente lontana rompeva il silenzio che regnava intorno.
Il mio non era il vagabondare di un povero ruscello, creato da un incolpevole sogno della natura, condannato a muoversi tra sassi e insidie per andare incontro al proprio destino di annullarsi nell’immensità del mare.
La natura disegnava sul corpo ombra di rami secchi. Era come se il mio corpo fosse d’improvviso divenuto trasparente, invisibile, per paura che la natura potesse carpire il mio segreto, per timore che mostrandomi potessi diventare preda e consentire agli altri di rubarmi il corpo. Spesso le difficoltà nelle relazioni le manifestavo restando in silenzio, in disparte, un passo indietro, a una distanza di sicurezza dagli altri, per evitare al corpo di percepire la sensazione, il disagio di essere toccato, anche se nessuno lo sfiorava. Il silenzio, maschera della mia falsa timidezza, non era suggerito dalla mente, ma una strategia attuata dal corpo, che riusciva a imporre il suo volere.
Camminavo per offrire a pensieri, metafora della vita, un modo per riflettere sui miei stati d’animo che emergevano dalla narrazione di incerta memoria e delle giornate trascorse in solitudine.
È stato durante una solitaria passeggiata che ho capito che la mente era la prigione da cui non riuscivo a fuggire. Facevo di tutto pur di non vedere ciò che non dovevo vedere, per non rivivere il dolore del passato. Ho custodito per anni il mio segreto, ora non desidero più sopravvivere con gli occhi chiusi su tutto ciò che mi ha reso così come sono. Non voglio continuare a essere una donna frustrata dagli eventi. Se gli altri non si sono presi cura di me, devo essere io a farlo.
Cosa importa di ciò che è stato, l’essenziale è dare senso alle emozioni che emergono dal nulla, anche se sollecitate da strampalati ricordi. Chi ero? Chi sono? Sono semplicemente figlia di genitori che hanno reso la mia vita un incubo, privandomi del senso di protezione di una carezza, di un abbraccio. Ancora oggi il corpo e la mente hanno in sé aspetti devastanti, mi sento vuota e frammentata, non riesco a trovare le parole per esprimere le umiliazioni subite, la rabbia e l’incredulità.
Le difficoltà le vivo nelle relazioni, nelle emozioni innescate dalla vergogna e dal senso di colpa che mi hanno rinchiuso in me stessa, come se fossi diretta responsabile di ciò che è accaduto, per aver accettato di essere toccata in quella graduale e turpe seduzione, in un’intimità ambigua e insidiosa che ha segnato per sempre l’innocente corpo di fragile bambina.
Sono stata sedotta dal bisogno di essere una prediletta, in una realtà che nulla offriva, in cui ero oggetto del vile piacere altrui. Un dolore che nessuno ha mai compreso, che ho mascherato, condizionata dal sentimento di non meritare un amore che rispetti la mia essenza di bambina prima e di donna poi.
Mi chiedo, quale piacere può dare il fragile corpo di una innocente bambina?
La timidezza e l’imbarazzo hanno rinforzato la sensazione di essere inadeguata e diversa, a causa di inesprimibili comportamenti. Il vissuto di colpa ha fatto emergere un meccanismo che ha proiettato su di me, la colpa di ciò che è accaduto, che ha amplificato il diniego degli eventi.
È un qualcosa che è accaduto molti anni fa ed ora sono ancora là, prigioniera di ricordi che sono in quella parte della mente in cui vi sono le cose che non vogliamo ricordare, ma che ritornano e riviviamo reali nel presente. Il passato è accaduto, non posso modificarlo. È tempo di uscire dalla gabbia per dare un senso diverso al presente, per poter cambiare il futuro. Devo liberare la mente dalla rabbia, dall’odio e dal rancore, catene che impediscono di aprirsi alla vita. Non desidero più abbandonarmi a ciò che accade, non voglio più concedere, ai fantasmi del passato, di rubarmi un’esistenza serena.
Ho bisogno di non essere più sola, per far emergere il disagio della bambina che è in me. Da sola non riesco a trovare il modo e le parole per esprimere il mio vissuto, difficile da recuperare. Ho bisogno di confrontarmi con qualcuno di cui possa fidarmi, per sviluppare nuove strategie, necessarie per affrontare la vita e ricostruire in me, il senso della fiducia e della sicurezza. Questo è l’unico modo che ho per liberarmi dalla propensione a credere di essere la diretta responsabile di ciò che mi è accaduto e di convivere con i sentimenti d’impotenza, in un vuoto esperienziale, bloccata sugli eventi del passato.
La chiusura difensiva è necessaria per evitare il contatto con i profondi contenuti traumatici. Tuttavia, a volte riesco a superare questa difficoltà, ma non possiedo gli strumenti cognitivi e le necessarie risorse psicologiche per dare un senso alla realtà, in cui persistono sensazioni di tristezza e apatia, indotte dall’incapacità a simbolizzare e verbalizzare le emozioni.
La timidezza e l’imbarazzo hanno rinforzato la sensazione di essere inadeguata e diversa, a causa dei comportamenti sintomatici percepiti inaccettabili e inesprimibili. Il vissuto di colpa ha fatto emergere un meccanismo identificativo che ha proiettato su di me, la colpa di ciò che mi è accaduto e che ha amplificato il diniego degli eventi. È un qualcosa che è accaduto molti anni fa ed io ora sono ancora là, tenuta in vita da ricordi che sono in quella parte del cervello dove vi sono le cose che non vogliamo vedere, ma che ritornano in mente e che viviamo come reale nel presente, anche se non ne siamo consapevoli.
Quando si è in preda ai ricordi traumatici che invadono il presente, i tempi si smarriscono, si è nel presente, mentre si vive nel passato. Ciò che è importante è riuscire a individuare i collegamenti tra sensazioni, percezioni, emozioni, pensieri e comportamenti, in modo da consentire alla persona di acquisire la consapevolezza dei legami tra gli eventi e gli stati emotivi disfunzionali.
«Non so cosa significa avere un padre. Da bambina, a volte di nascosto piangevo per non poter fare una passeggiata con lui, così come facevano gli altri. Oggi sono adulta e guardo ancora quei papà che passeggiano con i propri figli, tenendoli per mano, che giocano con loro e mi chiedo: CHE COSA SI PROVA?
Nella vita ho sempre portato una maschera, ho sempre nascosto tutto, perché mi vergognavo. Quando sono con gli altri, sono allegra, rido, scherzo, ma dentro ho l'anima morta».
Noi tutti possiamo coprire il volto con una maschera sorridente per recitare la nostra commedia oppure quella triste per segnalare la nostra tragedia, ma anche se togliamo la maschera sappiamo che quella non è la persona che vorremmo essere nella vita reale e nascondiamo la nostra personalità, coprendola con quella di altri, pur di illuderci di poter fuggire da sé stessi.
Per interpretare il nostro personaggio dobbiamo abbandonare la scena, porci domande, riflettere su sé stessi, confrontarci con le proprie paure, emozioni e ricordi. A volte riusciamo a buttare via tutte le maschere e mostrare il vero volto, metafora di ciò che si è. Siamo noi che scegliamo i NOSTRI RICORDI. Siamo noi che costruiamo la NOSTRA REALTA’.
Questa consapevolezza mi fece comprendere che dovevo scegliere, potevo arrendermi a quello che mi accadeva, vivendo una vita creandomi alibi, oppure potevo fare uno sforzo per rendere la vita migliore. Ho iniziato così ad analizzare ciò che mi era accaduto, cercando di dare un significato a tutte le avversità, ma l’essere nata da un fantasma e da un genitore prigioniero nella sua irrisolta esistenza, non offriva speranze.
Sono cresciuta abbandonata a me stessa, priva di qualsiasi sostegno. Ciò ha contribuito a determinare la convinzione di non meritare una presenza importante nella mia esistenza. Non riuscivo a notare le offerte di aiuto, qualsiasi innocua contraddizione la interpretavo come un segnale di rifiuto, per cui non riuscivo a identificare ciò che poteva disconfermare le mie errate convinzioni. In diverse occasioni ero orientata a notare gli stimoli che mi ricordavano gli eventi traumatici, senza rendermi conto che in realtà quelli erano innocue memorie del passato.
Ho dovuto rinunciare a una parte della mia infanzia e ai miei bisogni di bambina, per liberarmi dal dolore e per dare un significato a tutto ciò che mi era accaduto. Sono così riuscita ad accogliere dentro di me la realtà, ad accettare ciò che non potevo modificare, a cambiare ciò che era possibile, al fine di poter acquisire la capacità a distinguere tra ciò che era nelle mie possibilità di cambiare e ciò che dovevo accettare.
Nel rievocare il passato di bambina ho scoperto che la storia della vita mi ha ingannato, mi ha fatto credere che vi fossero persone cui affidarmi, mentre in realtà non vi era nessuno. Nell’attraversare il mio destino ho dovuto inevitabilmente rivivere antiche paure, ansie, angosce e ho dovuto superare le innumerevoli difficoltà che mi spingevano a evitare quell’intenso antico dolore. Ormai avevo capito che per venire fuori dal passato dovevo passarci in mezzo.
Non ricordo quanti anni avevo, non capivo, non sapevo, tutto è iniziato come un gioco cui non potevo sottrarmi, ero piccola e indifesa, perché chi doveva proteggermi, era sempre assente, anche quando era fisicamente presente, il lavoro, gli amanti. Tutto era più importante di sua figlia. Chi invece doveva proteggermi, mi aveva abbandonato prima che nascessi, nella convinzione che quella fugace scopata fatta con mia madre fosse stato un incosciente incidente, di adolescenti irresponsabili.
A questo pensiero spesso si sovrapponeva l’immagine di un padre che sognavo diverso da quello che la realtà mi suggeriva. Sapevo che per guarire, in qualche modo doveva entrare in me, per riempire quel vuoto che i miei bisogni cercavano di colmare, attraverso i sogni alimentati dall’immaginazione, anche se a volte mi terrorizzava l’idea che le mie fossero solo illusioni. Avevo bisogno di Lui, di conoscerlo come uomo, per capire se poteva anche essere un padre. Forte era il desiderio di sapere perché mi aveva abbandonato ai vampiri del destino.
Sapevo cosa significava volere delle risposte e gradualmente la paura di cambiare si trasformò in un atteggiamento di ricerca, per dimostrare a me stessa che era possibile vincere la battaglia contro il destino. Dovevo conoscere quali erano state le trame che avevano determinato la mia storia di bambina, per acquisire la consapevolezza necessaria per vivere costantemente nel momento presente. Quello che mi era accaduto doveva diventare un normale ricordo autobiografico, da poter narrare con consapevolezza, in modo da comprendere gli eventi e valutarne le conseguenze.
Avevo intuito che era l’unico modo per ricollocare il passato nel passato, evitando così di restare in balia di frammenti emotivi tossici, che m’impigliavano nelle trappole invisibili dei legami disfunzionali del passato, liberi di inquinare quelli del presente, vissuti come fonte di paura, giudizi, colpe, rancori.